venerdì 14 novembre 2008

Porco Diaz

Riporto i pensieri di un amico sulla sentenza per i "fatti della Scuola Diaz".
Buona lettura.



di Emiliano Loi

Molti di Voi non mi conoscono però oggi vorrei condividere con tutti alcuni pensieri. Miei.

Mio nonno nacque alla fine dell’ottocento e negli anni ’30 del secolo scorso era già un uomo sposato con molti figli. Lavorava ed aveva un pezzo di terra dal quale con fatica e dedizione tirava fuori di che vivere e di che far vivere la sua famiglia. Era un uomo semplice, nato in un piccolo paese, aggrappato alle pendici di una montagna. Dicono che le persone che vivono in luoghi simili siano dure, come la roccia delle montagne, che resistono al freddo, al vento, alla neve. Lui era così.
Un giorno gli arrivò la voce che in Italia non si potevano più dire alcune cose, che in Italia si doveva vestire i bambini in un certo modo e che non si poteva pensarla diversamente perché tanto era inutile.
Non se ne curò, era distante da lui tutto ciò, la sua unica preoccupazione era il grano che ostinato non ne voleva sapere di uscire rigoglioso da quella terra, troppo scura, troppo umida, troppo lontana dal sole e dalla bellezza.
E le giornate trascorsero, ed il vento portò il freddo e poi la pioggia e dopo il sole di nuovo.
Passò del tempo ed un giorno un uomo, duro come lui, bussò alla porta della sua casa, gli presentò una tessera ed un invito. Rifiutò. Perché era nato libero. Mio nonno viveva nel rispetto delle regole e degli altri; andava pure in Chiesa.
Venne pestato a sangue. Trascorse 4 anni in prigione, senza spiegazioni. Senza capire. Sapeva solo di dover contare sulla sua determinazione e sulla sua durezza. Pensava molto alla famiglia. Pensava ancora di più ai campi ed al suo grano, ostinato. Come lui.
Un giorno uscì da quella notte durata anni, ritrovò la sua famiglia, tutta, ritrovò il campo. Pieno di buche profonde. Come le ferite che la consapevolezza aveva lasciato nella sua anima, nel suo orgoglio, nelle sue speranze.

Mio nonno è morto molti anni fa. Tuttavia quando ero piccolo mi raccontava molte cose, nelle stanche sere della sua vecchiaia, ingannando i lunghi inverni che lo avvicinavano soddisfatto alla sua fine. Aveva un cruccio. Io che non avevo vissuto la sua vita, dovevo conoscerla, nel tentativo di trasmettermi degli insegnamenti per evitare di ripetere gli errori commessi che macchiano l’anima dell’umanità. Per sempre. Poi mi abbracciava, non teneramente ma con forza. La forza di chi aveva ancora molto da fare, la forza di chi non vuole dimenticare sotto l’incanto della stanchezza.

Tutti stiamo dimenticando. E molte cose che sono vere diventano racconti. E molti racconti diventano vecchi ricordi. E tutti questi vecchi ricordi diventano sentenze di uomini che abilmente ci fanno dimenticare.
Sette anni fa è accaduto qualcosa. Una notte delle persone che somigliano a mio nonno sono state portate via, nella sua stessa maniera. Da altre persone, dure.
Io non giudico, non è il mio mestiere. Io non sono un moralista, non è il mio status. Eppure capisco quando una cosa è giusta e quando non lo è. Con buona pace di chi vuol offendere la mia intelligenza.
Ieri non è stata fatta giustizia, così come non fu un atto di giustizia quello compiuto sette anni fa. Sette anni fa alcuni che dovevano essere puniti, nel rispetto di quella Costituzione per cui persone come mio nonno sono vissute, sono rimasti nell’ombra. Sette anni fa si decise invece di macellare un gruppo di persone solo per rappresaglia, per avvertimento, per furia cieca. Vennero usate persone a mo di armi esattamente come nel secolo scorso, ed esattamente come allora chi ha deciso non è stato punito per i crimini commessi contro quei cittadini che invece dovevano proteggere. Gian Battista Vico pensava che proprio per la natura umana, la storia è riconducibile ad una serie di corsi e ricorsi.
Noi stiamo “ricorrendo” una delle pagine più umilianti dei libri che abbiamo studiato a scuola.

È davvero questa l’Italia che desideriamo lasciare ai nostri figli?

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